La donna al centro? Le implicazioni per la pratica ostetrica

Benché tutte le leggi esaltino la libertà della scelta della donna, le pratiche assistenziali sono operatore-centriche e la donna diventa inevitabilmente un oggetto, oggetto di preoccupazione, di diagnosi e terapie, oggetto incapace di intendere e di volere, oggetto da controllare e tutelare.

La causa sta nel modello di assistenza. Dicono Rosemary Mander et al. nel loro articolo “Reflecting on good birthing: an innovative approach to culture change (MIDIRS 2010) che …”le azioni di routine, dovuti agli interventi di routine negano alla donna  l’autonomia che le spetta. Tali azioni di routine non solo depotenziano (disempower) la donna partoriente ma anche l’ostetrica che l’assiste.”

Nel modello medico l’attenzione è rivolta alle patologie, presenti o potenziali. Lo strumento per individuarle è la diagnosi, per curarle la terapia. Detentore del sapere di diagnosi e terapia è l’operatore o l’operatrice. Quindi l’operatore è al centro. Deve prendere le decisioni. Detiene le responsabilità. In mano sua sono le risorse (la terapia). Tutto il peso delle decisioni da prendere grava sugli operatori. Applicato a donne sane, la conseguenza di questo modello è la patologizzazione di gravidanza e parto e la riduzione della donna a una paziente.

Nel modello della midwifery, che si occupa in primis di donne e bambini sani, l’attenzione è rivolta alla salute. Lo strumento per individuarla sono i segni di salute, rilevabili attraverso l’osservazione  clinica delle funzioni fisiologiche. Lo strumento principale per mantenere ed eventualmente ristabilire la salute è l’attivazione delle risorse della donna. Detentore del sapere è in primis la donna stessa. Quindi la donna è al centro, sue sono le responsabilità e in mano sua è l’attivazione delle risorse. Naturalmente con il sostegno dell’operatore, se richiesto, il quale deve chiedere alla donna, per sapere. La responsabilità è condivisa, le decisioni vengono prese insieme.

I modelli di assistenza sono influenzati dal luogo e dall’organizzazione del lavoro. Gli ambienti costituiscono sistemi culturali e prevedono modi comportamentali precisi, sia per gli operatori che per le donne, finalizzati a mantenere lo status quo organizzativo (Manders 2010). L’ostetrica si trova tra diversi modelli culturali: quello proprio della midwifery, quello della singola donna partoriente e quello istituzionale. Nel modello medico assume facilmente lo status di oppressa o, secondo Manders assume comportamenti da appartenente a un gruppo di oppressi, di cui fanno parte secondo S.J. Roberts (2006) caduta dell’autostima, scarsa capacità di comunicazione, ridotta coesione con il gruppo di pari, e numerosi conflitti all’interno del gruppo di lavoro. Il cambiamento o il riscatto sta nell’investimento nella relazione ostetrica-donna e in una nuova cultura della nascita.

Più è segmentato l’intervento assistenziale, ovvero, minore è la continuità dell’assistenza, maggiore è la difficoltà di esercitare il modello della midwifery e minore è la possibilità della donna di stare al centro della sua esperienza. Un ambiente di lavoro di scarsa coesione e sostegno secondo la Kirkham (2007) debilitano le ostetriche e le fanno disimpegnare dalla relazione con la donna il più possibile. Preferiscono prendere il caffè che stare vicino alla partoriente.

Ma i modelli di assistenza sono anche una questione di atteggiamento mentale (cultura) e di scelta dell’operatore su come vuole stare con le donne, i bambini, i papà.

 

L’informazione – offrire opzioni:

L’istituzione riconosce solo un modello di assistenza: quello medico. I media lo sostengono in esclusiva. Un parto normale, all’interno di questo modello appare ormai come un “film in televisione”ovvero, ha del surrealistico. La normalità è il parto medico. L’informazione offerta alle donne e coppie va unicamente in questa direzione, è quindi incompleta e direzionata. Il suo fine è di orientare la donna verso le offerte del modello medico e farle accettare, minimizzando le conseguenze.

Per poi lasciarla sola!

Alcuni esempi: per stimolare la scelta per la raccolta del sangue cordonale viene negato il fatto scientificamente provato che questo sangue serve al bambino. L’informazione data dice che non c’è nessuna conseguenza sul bambino.

Per orientare la donna verso l’analgesia epidurale, i suoi possibili effetti collaterali vengono taciuti o minimizzati o compressi in un elenco illeggibile da firmare. Non vengono menzionate alternative per l’analgesia farmacologica, ne offerte informazioni sulla funzione delle doglie e sulla loro gestione.

Per vincolare la donna a una macchina che controlla il battito del suo bambino durante il travaglio, vengono taciute le reali indicazioni e l’utilità effettiva del monitoraggio continuo, la donna non viene informata su altri segni di benessere fetale ne sugli esiti del CTG continuo in un aumento dei cesarei. Non le viene offerta l’opzione su come controllare il suo bambino durante il travaglio. Dato che molte donne sentono il bambino dentro come un uragano durante il parto, certissime della sua vitalità, questa opzione sarebbe invece molto importante.

Esempi analoghi potremmo fare sulla posizione supina, sull’episiotomia, sulle induzioni e praticamente su tutti gli interventi medici che vengono eseguiti durante il parto e la gravidanza.

Un’informazione completa che abbraccia tutte le possibilità invece ha un altro obiettivo: quello di offrire opzioni di scelta. Offrire opzioni di scelta significa lasciare aperto alla donna il modo di vivere e gestire la sua maternità, lasciarla libera a scegliere la strada che lei ritiene più sicura per sé e per il suo bambino e accompagnarla nelle sue scelte anche quando non corrispondono alle nostre aspettative o ai nostri ideali.

Un’informazione che offre delle opzioni deve basarsi sulle leggi della fisiologia, sulle evidenze scientifiche, deve considerare i pro e i contro di ogni ipotesi, deve contenere tutte le alternative possibili e mettere il tutto in relazione con il contesto della donna e con la fattibilità.

La metodologia più efficace per trasmettere questa modalità informativa e per mettere la donna al centro è il problem solving. Il problem solving parte dall’ascolto, esplora la domanda nei dettagli prima di dare le informazioni. Questo, per calibrare il tipo di informazione utile per andare verso una scelta personale. Valuta insieme alla donna quali siano i passi fattibili da fare o programmare.

In questo modo la scelta diventa un processo di conoscenza e decisionale con il sostegno e l’accompagnamento della persona di cura.

Tanti sono invece gli atteggiamenti (automatici) che sanciscono l’incapacità di intendere e di volere della donna che diventa madre.

La gravidanza e le regole:

il timbro sulle regole dell’assistenza medica viene posto all’inizio della gravidanza con la consegna del libretto della gravidanza. Il libretto, il cui scopo dovrebbe essere la tutela della donna gravida e rispondere a un suo diritto di assistenza si trasforma in un programma di regole da seguire. In molte donne c’è la convinzione che gli esami contenuti nel libretto siano obbligatori.

Sicuramente sono diventati strumento di pressione: se non li fa tutti, la donna viene sgridata  come una bambina disubbidiente, o le viene negato l’accesso a servizi così detti alternativi come la stanza del parto naturale o il parto domiciliare istituzionale, o ancora, le viene negato il rimborso per il parto domiciliare in diverse delle regioni che lo offrono. Praticamente con la consegna del libretto l’istituzione chiede alla donna la consegna del suo corpo. “Io ti do il libretto e l’assistenza – tu mi dai il tuo corpo”. “Se tu non mi dai il tuo corpo, io non ti do i soldi” nel caso del negato rimborso o, in altre parole: “se mi dai il tuo corpo io ti do i soldi”. Con questo atteggiamento l’istituzione chiede alla donna una specie di prostituzione, in cambio della concessione della libertà! Una vecchia storia ….!

Così la cultura della delega si rinforza. Il gioco è facile: la donna con la gravidanza si apre e diventa vulnerabile, quindi ricattabile.

Come si possono trasformare i protocolli, le procedure e modalità di assistenza da obbligo in opzione di scelta? La ricerca ci ha già indicato la strada: con la partecipazione attiva della donna alle scelte di assistenza.

Il presupposto è che i protocolli non sono leggi, le procedure d’assistenza non sono obblighi, ma ogni intervento sul corpo della donna e del suo bambino dev’essere sottoposto alla sua scelta, tramite un’informazione completa.

“l’art. 32 della Costituzione testualmente recita:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

La salute è un diritto costituzionalmente protetto e deve essere quindi tutelato sia nel suo aspetto positivo inteso come il diritto del singolo di autodeterminarsi liberamente e volontariamente in ordine ad atti ed attività che coinvolgono il suo corpo; sia nel suo aspetto passivo che riguarda atti ed interventi ad opera di terze persone che vogliono effettuare tali atti senza il suo consenso.”

 

Il consenso informato:

una legge che andava esattamente in questa direzione, il cui scopo era di aumentare la partecipazione del malato, nel nostro caso della donna, si è ridotta in formalità sbrigative della firma di fogli, i quali non c’è neanche il tempo di leggere, né di riflettere, né ne rimane coppia alla donna. In breve, in genere la donna non sa cosa ha firmato. Anche questa modalità di “consenso” di fatto è una liberatoria per il medico o l’ostetrica di praticare i loro interventi di routine, una consegna del proprio corpo da parte della donna a loro.

In alcuni luoghi, dove il rischio che la donna decida in prima persona è maggiore, come per esempio in centri ospedalieri gestiti da sole ostetriche, esistono addirittura delle formule di richiesta di delega preventiva, ovvero di accettazione a priori di certi interventi qualora gli operatori li ritengano necessari, togliendo così alla donna la possibilità di scelta e di partecipazione e agli operatori il fastidioso compito di mettersi in relazione con la donna al momento in cui le decisioni si pongono.

Anche in questo caso non rimane copia alla donna e non sa o non ricorda cosa ha firmato.

Quanti operatori incoraggiano invece la stesura di un piano del parto? Quanti lo concepiscono come uno strumento d’aiuto per poter offrire alla singola donna un assistenza più mirata ai suoi bisogni? Quanti lo accettano come quello che è: un’espressione legalmente vincolante del volere della donna? Quanto fanno conoscere delle alternative esistenti?

La legge: “l’art. 30 del codice di deontologia medica del 1998, a tutt’oggi vigente, rubricato come Inforrmazione al cittadino, stabilisce al primo comma che “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative

diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Possiamo citare anche la legge 28 marzo 2001, n. 145 che recepisce la c.d. Convenzione di Oviedo3 che pone

all’art. 5 una “regola generale” arrivando a precisare che la persona assistita deve ricevere preventivamente una “adeguata informazione in merito allo scopo e alla natura dell’intervento nonché alle sue conseguenze e ai suoi rischi”. Avvocato Luca Benci

Il diritto all’appropriatezza:

oltre alla corretta informazione, la donna ha diritto all’appropriatezza dell’intervento. Ciò significa che interventi eseguiti di routine, senza specifica e individuale indicazione sono illegali. Nell’informazione, l’appropriatezza di un intervento dev’essere dichiarata. Se l’informazione che precede l’intervento è insufficiente, il consenso dato è nullo e l’intervento può essere contestato da parte della donna.

Ancora Benci: “l’appropriatezza degli interventi medico-chirurgici è assolutamente un principio giuridico più volte ribadito dall’ordinamento. In caso di chiaro intervento con caratteristiche

di inappropriatezza quindi – e non nei casi border line – quale tipo di informazione viene data alla paziente, con quale linguaggio, quali aspetti vengono enfatizzati e quali minimizzati?

Le domande non sono certo retoriche perché si rivolgono al cuore del problema: nella maggior parte dei casi si tratta di un’informazione di per se scorretta, tesa non a fornire la più “idonea informazione sulla diagnosi”, ma tesa a carpire un consenso che altrimenti non ci sarebbe. Le modalità dell’informazione determinano di conseguenza la nullità del consenso con le doverose conseguenze giuridiche sia civilistiche che penalistiche che deontologico-disciplinari.”

La libertà di movimento in travaglio e parto:

la libertà di movimento in molti (ancora troppo pochi) ospedali è promessa, ma di fatto dipende da chi c’è di turno, dall’esperienza e motivazione dell’ostetrica presente, dalla “magnanimità” del medico di turno, dall’ambiente (forse occupato), dal carattere della donna, da quello che è successo prima e da altri fattori casuali. Spesso anche quando viene praticato il “parto attivo”, la posizione del parto viene decisa dall’operatore. Anche in questo caso la donna è l’ultima a decidere, a meno che non sia una guerriera che battaglia.

Considerando che la posizione verticale libera è la modalità appropriata per un parto senza complicanze, la proposta dovrebbe essere attiva verso tutte le donne e non dovrebbe essere concesso solo a chi lo richiede.

L’episiotomia:

da tempo le ricerche hanno definito l’episiotomia come inappropriata in un parto normale e culturalmente è stata definita come mutilazione genitale. Nonostante ciò non solo viene ancora ampiamente praticata, ma sopravvive ancora il dubbio se il consenso della donna sia necessario. Molti operatori la ritengono una specie di procedura d’emergenza per la quale pensano che il consenso non sia necessario, ma se il parto viene condotto secondo metodi appropriati, se la donna partorisce in posizione verticale, l’episiotomia non trova indicazione e comunque il consenso è d’obbligo.

Se la donna è correttamente informata sull’appropriatezza dell’intervento e sulle sue complicanze a breve, medio e lungo termine le sarà facile dare o negare il suo consenso.

Il cesareo:

lo stesso vale per il taglio cesareo. Anche quando viene praticato per motivi urgenti, il consenso della donna è necessario. In altre parole, la donna lo può rifiutare. Sta alla capacità comunicativa e sensibilità dell’operatore, sondare le ragioni e sostenere la via più vicina alla salute.

L’accoglimento del bambino, il taglio del cordone:

Se la donna è ricattabile su di sé, lo è ancora di più sul suo bambino. Le ragioni del modello medico la convincono a consegnare il suo bambino agli specialisti, i quali la tengono fuori e decidono il momento di consegnarle il suo bambino, come se non fosse suo. E’ impressionante vedere le file delle mamme davanti alla stanza chiusa del pediatra che aspettano la consegna e il permesso di avere il loro bambino!

Se vogliamo mettere la donna al centro della sua esperienza della maternità, dobbiamo metterla anche al centro come madre. Ogni madre è competente per il suo bambino.

Quanto questo venga messo in dubbio, lo dimostra l’esempio di un grande ospedale universitario dove le puerpere non sono autorizzate a cambiare il pannolino al loro bambino, se non sono andati prima a lezione di cambio pannolino, tenuta in modo frontale da una infermiera. Inoltre, se a lezione non ci vanno, l’ospedale rifiuta loro i pannolini stessi per il cambio. C’è anche la punizione. Proprio l’opposto dell’empowerment!

Atti semplici, routinari come il taglio del cordone, le prime procedure di assistenza al neonato, la prima alimentazione sono tutti soggetto a consenso o dissenso informato. Se la donna, per il bambino i genitori, rifiutano il loro consenso senza mettere in pericolo il bambino, la procedura non può essere eseguita.

Dice infatti il magistrato Nannucci, parlando della delega al giudice per sostituire i genitori nelle loro facoltà decisionali rispetto al figlio: “…non sono i genitori quelli che secondo natura, hanno voluto il figlio e, fino a prova contraria, più di ogni altro lo amano? L’invadenza del giudiziario in settori che investono questioni fondamentali dell’esistenza individuale non può che apparire indebita sopraffazione di diritti naturali e costituzionali che il giudice deve rispettare e non stravolgere.” (Nannucci 2008 D&D)

Chieder il consenso non è solo una formalità, significa prendere in considerazione la donna e appellarla come soggetto maggiorenne.

 

I centri ospedalieri per il parto naturale:

Porto come esempio la storia emblematica di Maria, donna normale, non particolarmente informata, con il desiderio di partorire in modo tranquillo, senza troppi disturbi, attratta dalla presenza di una vasca per il parto  acqua. Si rivolge a un centro ospedaliero gestito da sole ostetriche. E’ risaputo tra le donne di città, che i criteri di ammissione sono molto stretti e che il rischio di essere “selezionate” e inviate nel vicino reparto ospedaliero medico è molto alto. La prima preoccupazione di Maria è quindi di essere accettata. Passa la visita a fine gravidanza come un esame di maturità da sostenere e sollevata torna, perché non hanno trovato niente che non va.  Ha fatto tutti gli esami previsti in gravidanza perché altrimenti “non la prendono”.  Ha firmato una delega in bianco, promettendo di accettare tutte le decisioni delle operatrici, senza discutere, ma non ricorda esattamente cosa ha firmato. Il suo medico intanto la avvisa di “non farsi la bocca”, perché “non è detto”. Quindi l’ansia dell’inadeguatezza rimane. Si avvicina il parto e la seconda ansia riguarda il posto. E se il reparto è pieno?

Iniziano i prodromi. Maria telefona subito al Centro per assicurarsi che il posto ci sia. Viene invitata a presentarsi e, constatata una marginale rottura delle membrane con scarso deflusso di liquido amniotico viene ricoverata e trattata subito con antibiotici. Lei conosce i rischi di ambedue le procedure, ma dice che se non accetta, non la prendono. Inoltre vuole occupare il suo posto. Cede dunque, inutilmente come poi vedremo. Dopo lunghi prodromi il tempo ospedaliero comincia a scadere e l’ostetrica con l’orologio alla mano comincia a parlare di trasferimento. In Maria lo stress aumenta e il travaglio rallenta. Nessuna scelta in realtà è stata possibile. Maria aveva già firmato prima, di accettare ogni decisione e anche il trasferimento. Ma soprattutto non c’è stata nessuna relazione con Maria, la quale ha poi subito un “normale” parto medico. Nessuna ricerca delle sue risorse, delle sue volontà e modalità reattive. L’unica preoccupazione degli operatori era quella di essere in regola con i protocolli.

Partorire da sole:

In questo clima di gestione delle donne come esseri minorenni o minorate, dove la delega non solo viene richiesta ma spesso è d’obbligo, quando una donna osa sottrarsi a questa condizione e decide di partorire da sola, è considerata come minimo “politicamente scorretta”. Ma quale alternativa le offriamo? Dove sono i luoghi che la rispettano interamente? Dove può esprimersi in tutta libertà secondo i propri criteri?

Dov’è la fiducia, che la donna madre ha capacità di giudizio? Che ci tiene come prima alla salute e al benessere del suo bambino?

Le implicazioni per la donna:

scegliere significa porsi. Chi assume una posizione è criticato. Lo è la donna che si pone con delle proprie scelte di fronte all’istituzione. Che non china la testa e mormora “sissignore…”, che non si lascia sgridare e trattare come una bambina.

In gravidanza è imperativo sentirsi al sicuro, protette. Esporsi significa crisi. Tuttavia, è in gioco la qualità della propria vita  di quella del figlio. Il primo bisogno è dunque trovare un sostegno adeguato, che possa accompagnare e contenere i processi decisionali, offrire le informazioni corrette e spazi per la sperimentazione e l’espressione. Il secondo bisogno è la conoscenza delle procedure istituzionali, dei propri diritti e di conseguenza l’aumento della propria capacità contrattuale, sia a livello cognitivo, che corporeo, che espressivo. Questo permette di porsi con cognizione di causa e dignità.

 

Le implicazioni per gli operatori:

la prima parola è “rispetto”. Affrontare ogni donna con rispetto, con attenzione, chiedere! Chiedere il permesso per ogni atto assistenziale,per ogni tocco, per ogni visita! Considerarla alla pari! Si chiama “relazione simmetrica”.  Facilita un buon parto (Manders 2010). Una relazione simmetrica, per svilupparsi, ha bisogno di un ambiente nutriente, di sostegno. Dato la maggior parte degli ambiente di lavoro in ostetricia, la relazione simmetrica, di rispetto entra facilmente in collusione con il sistema. Questo crea stress e lo stress riporta al disimpegno dalla donna.

In breve, l’ostetrica non può mettere la donna al centro e instaurare con lei una relazione soddisfacente per ambedue nel sistema attuale di lavoro.

L’implicazione allora è quella di cominciare a pensare nuove forme per l’organizzazione del lavoro dell’ostetrica affinché il modello della midwifery e con esso una reale scelta sia per le donne che per le ostetriche possa prendere vita.

Riferimenti bibliografici

Benci L. (2003) Demedicalizzare il parto o demedicalizzare il percorso nascita?Il ruolo e la responsabilità del medico ostetrico e dell’ostetrica/o

Kirkham M, (2007): Traumatized midwives, AIMS Journal 19(1): 12-3

Mander R. Murpy-Lawless J., Edwards N. (2010) Reflecting on good birthing: an innovative approach to culture change. Part 2. MIDIRS Mdwifery Digest 20:1 2010, pp 25-29

Nannucci U. (2008): Articolo 32, il commento di un magistrato alla carta di Firenze, D&D n. 64, marzo 2008, pp 44-46

Roberts SJ (2006): Oppressed group behaviour and nursing, in Andrist LC et al: A history of nursing ideas, Sudbury, MA: Jones &Barltt: 23-31

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *