LA VIOLENZA OSTETRICA – POSSIBILI CAUSE E POSSIBILI RIMEDI

La violenza ostetrica, oggi tema di attualità, in realtà è un fenomeno diffuso da tempo. Le donne finalmente ne parlano, ma la subiscono anche i neonati che non possono dirla.

Il comportamento violento o di disrispetto, benché agito da persone singole, è indotto dall’ambiente che condiziona fortemente le azioni delle persone, ma anche dal processo stesso del partorire.  Senza togliere la responsabilità personale di chi agisce il disrispetto, occorre essere consapevoli, che l’ambiente può attivare certi aspetti emozionali soprattutto se non elaborati negli operatori e autorizzare comportamenti che sono tabù in altre situazioni. Questo condizionamento contestuale si esprime maggiormente in chi è debole emotivamente o carico di esperienze personali difficili non elaborate. Infatti, si basa anche su un senso di impotenza e l’uso difensivo del potere autoritario esercitato sull’altro, soprattutto se l’altro si trova in una situazione vulnerabile.

L’origine della violenza ostetrica si collega all’ospedalizzazione dei parti e alla conseguente standardizzazione dell’assistenza, ovvero al trasferimento della donna partoriente dal suo ambiente sociale, intimo e affettivo protetto a un ambiente sconosciuto, dove viene isolata da chi le sta vicino affettivamente, spogliata della sua personalità, esposta e dove l’accaduto rimane senza testimoni.

L’origine è dunque soprattutto sistemica, strutturale, legato al tipo di organizzazione dell’assistenza al parto, al suo connotato culturale (patriarcale), quindi anche alla disparità di genere, a conflitti di dominanza, nonché a delle immaturità personali.

La gerarchia vigente nelle istituzioni sanitarie crea competizione negativa, alimenta conflitti di potere, per cui ognuno subisce il potere di chi sta sopra di lui nella scala gerarchica e abusa del proprio potere verso chi sta sotto di lui. Nell’assistenza medica al parto il ginecologo si trova sul gradino più alto della scala, l’ostetrica vicino alla donna sul penultimo gradino e la donna sull’ultimo. La struttura gerarchica degli ospedali inoltre amplifica alcune peculiarità insiti nel parto e nel partorire innescando dinamiche di potere e di aggressività.

Cerchiamo di capirle meglio:

Nel parto ci sono due peculiarità che, a mio avviso possono accendere reazioni di violenza in persone solitamente in grado di esercitare l’autocontrollo:

La prima riguarda l’apertura della donna, il suo divenire completamente vulnerabile, che si manifesta nella resa, nei momenti in cui esprime la sua impotenza (non ce la faccio più, fatemi qualcosa…). Questa condizione, conosciuta dalle ostetriche come la transizione finale del parto e il momento dell’empowerment, tocca nelle persone presenti un senso di impotenza, un sentimento intollerabile, che le induce al “fare qualcosa” pur di uscirne. Infatti, il modello medico è operante e risponde spesso a questo momento di transizione nel travaglio con un cesareo, un epidurale o altri “aiuti” interventistici aggressivi derubando la donna del suo successo. Al momento in cui affiora il bambino, l’ansia sale ulteriormente e l’operare attivamente, strappando il bambino dalla madre, calma l’ansia.

La stessa condizione di totale apertura della donna rappresenta anche la sua potenza: la capacità di far passare una vita attraverso il proprio corpo e la propria psiche. Questa sua potenza da una parte e il suo apparire senza difese dall’altra può indurre, in chi dovrebbe assisterla, la tentazione di usare il proprio potere e di interferire o ferire.

Riflettiamo: perché nelle odierne sala parto persistono manovre violente, pericolose, mai indicate, impunite, di cui oggi diverse donne muoiono (come per esempio la Kristeller che può provocare rottura d’utero e emorragia)? Contro ogni evidenza?

Perché c’è tanta resistenza a promuovere un’assistenza basata sulle prove di efficacia scientifiche, che toglierebbe l’aspetto manipolativo agli interventi medici che si userebbero solo su indicazioni specifiche?

Perché molte donne paragonano la loro esperienza del parto a uno stupro o ne hanno comunque un’impressione traumatica?

La seconda peculiarità riguarda l’emergere degli istinti collegato all’apertura del parto. Uno dei meccanismi paradossali del parto riguarda il capovolgimento delle forze tra istinto e autocontrollo. Per motivi biologici, l’emisfero destro del cervello, collegato alle funzioni vegetative prende la guida durante il parto. Quindi, per il solo spazio di tempo del parto gli istinti e l’intuizione predominano sulle attitudini cognitive, un aspetto che richiederebbe protezione.

Ora, una società civilizzata, istruita, sviluppata insegna fin dall’infanzia ai bambini di acquisire gradualmente il controllo sui propri istinti ed è peculiarità dell’adulto, saperlo esercitare per tenere sotto controllo istinti antisociali e aggressivi (Postman 1984/2005). Di pari passo con lo sviluppo e la fede nella tecnologia gli istinti vengono sempre più relegati, esclusi, svalorizzati, repressi. Rimangono quindi sconosciuti e spesso erompono in modo rudimentale.

La violenza ostetrica si nutre anche del bisogno di esercitare un controllo sull’istintualità sconosciuta (ansia), o viceversa, la dirompente emozionalità del parto, che può fare paura anche alla donna stessa, fa da miccia all’istintualità latente negli operatori, producendo in lui o lei un movimento regressivo facendo loro perdere il solito autocontrollo.

Le manipolazioni del parto medico sono un tentativo di mettere sotto controllo l’istintualità che non trova spazio in un concetto razionale asettico e standardizzato del parto. Il cesareo, l’epidurale sono i modi più comuni oggi per rendere il parto asettico. Ma anche le induzioni, le accelerazioni, i parti forzati sono una manipolazione del processo naturale, legati per forza alla violenza: sono atti di forzatura. Liberano o esaltano l’aggressività, oserei dire, soprattutto quella maschile svincolata da aspetti affettivi o da capacità empatiche.

Solo il vincolo affettivo con la donna, oppure una marcata capacità empatica sviluppano nell’uomo un atteggiamento protettivo e rispettoso di fronte a una donna che si apre.

Riflettiamo: perché nel passato e nelle altre culture l’uomo non è mai ammesso alla scena del parto, eccetto il partner della donna che ha vincoli affettivi con lei?

Anche le donne possono sviluppare comportamenti violenti, ma le cause sono un po’ diverse.

Un evento forte come il parto/nascita, evento personale e sociale, richiede un contenimento rituale che protegge dalle ansie esistenziali che suscita. Ogni tipo di società ne istituisce i propri.

L’ospedale assume il controllo rituale sulla nascita attraverso i falsi miti: sicurezza, libertà dal dolore, dagli aspetti istintivi e imprevedibili del parto, si erige a garante della vita e calma così i timori. Attraverso l’isolamento della donna si sottrae al controllo sociale. I miti non sono verificabili. Ha creato un luogo tabù, lontano dagli occhi degli spettatori, dove regna l’autorità medica e dove in nome della sopravvivenza succedono cose inconfessabili che passano per normalità.

Una ritualità a valenza empatica, relazionale, simmetrica, basata sulla realtà di ciò che accade, permetterebbe all’operatore di accettare i limiti che la vita stessa pone, di prendere la distanza interiore dalle proprie condizioni personali, pur stando emozionalmente in contatto con la partoriente. Della ritualità empatica fanno parte i rituali femminili di sostegno e solidarietà. La presenza di donne empatiche attorno alla partoriente può fornire la stessa protezione alla sua apertura nel parto di quella del suo partner affettivo partecipe e permette il controllo sociale.

COSA SI PUÒ FARE?

Cosa possono fare le istituzioni?

Se le cause sono sistemiche, non serve un sistema di punizione e super-controllo, non farebbe altro che esasperare la gerarchia con tutte le sue dinamiche negative. Naturalmente questo non significa ignorare le responsabilità personali.

Ma per prevenire la violenza ostetrica serve cambiare il sistema, abolire la gerarchia. Nello specifico della gravidanza e del parto, l’assistenza di base dev’essere affidata a un’operatrice di base (peer to peer), deve avere la caratteristica della simmetria e della continuità, deve includere l’ambiente sociofamiliare della donna. Essere assistita da una persona conosciuta, di fiducia con la quale si è instaurata una relazione empatica protegge la donna dalla violenza.

La formazione, l’educazione, la presa di coscienza dei meccanismi che portano a comportamenti violenti è sempre una buona idea.

Cosa può fare la donna?

Anche la donna ha una sua parte di responsabilità. Abituata alla delega, espropriata delle sue competenze, lasciata senza educazione, senza strumenti di coping, seguendo il mainstream di fatto si consegna nelle mani di chi ha potere e ne può abusare, soprattutto in un sistema patriarcale, dove il controllo sul corpo della donna significa anche il controllo sulla donna tout court.

Riconoscere questa condizione permette di diventare più attiva. Infatti la donna può:

  • informarsi – non deve dare niente per scontato
  • prepararsi, acquisire strumenti
  • dare un ruolo attivo al suo partner, preparandosi insieme
  • fare un piano del parto

Ma soprattutto:

DEVE SCENDERE DAL LETTINO DA PARTO!

Il lettino da parto che obbliga a partorire sdraiate, con i genitali esposti, in una condizione di impotenza è una modalità nata dal bisogno dei medici di poter vedere, controllare e mettere le mani sui genitali della donna e sul bambino che emerge. Non serve alla donna, non serve al bambino e rende il parto più difficile per ambedue, spesso anche pericoloso. Invita alle manovre estrattive e alle spinte sulla pancia, sia perché il parto così funziona male, sia perché la donna è accessibile.

Inoltre, esporre i propri genitali e la propria intimità di fronte a persone non legate affettivamente a lei mette la donna in pericolo!

Il libero movimento nel travaglio e parto protegge la propria intimità e facilita la nascita.

In sintesi:

  • Il sistema gerarchico, standardizzato e asettico degli ospedali non è adatto per rispettare il processo e la natura del parto e crea un ambiente che può accendere comportamenti aggressivi in singoli operatori
  • L’assenza della compagnia di donne attorno alla partoriente e l’assenza o presenza solo passiva del partner affettivo della donna rappresenta un rischio
  • Ambienti familiari e personalizzabili, la presenza di familiari e amiche, la riduzione delle gerarchie con chiare divisioni di compiti e responsabilità può ridurre il fenomeno della violenza ostetrica
  • L’uomo operatore senza vincoli affettivi con la donna, in ansia per il controllo e senza competenze empatiche rappresenta un rischio
  • La donna operatrice in conflitto gerarchico, con esperienze negative non elaborate e con eccessiva immedesimazione può rappresentare un rischio per la v.o.
  • La delega della donna agli operatori gerarchicamente in alto e la posizione supina aumentano il rischio di v.o.
  • Un maggiore controllo sociale riduce il rischio di v.o. (comunicazione dati da parte degli ospedali, accettazione del piano del parto, sistemi di continuità tra territorio e ospedale, rotazione del personale, piccoli team, parto extraospedaliero, ecc.)

Le ultime raccomandazioni scientifiche, in linea con quelle dell’OMS raccomandano il parto in strutture periferiche con l’assistenza di base dell’ostetrica, nel seguente ordine:

  • parto in casa,
  • in casa maternità extraospedaliera,
  • in un Centro Nascita in ospedale,
  • in un reparto di maternità.

In tutti questi luoghi la sicurezza misurata è uguale, ma il numero degli interventi sono crescenti e la soddisfazione delle donne è calante, sempre nello stesso ordine (Birth place study 2011). Indagando, facilmente si scoprirebbe che il fenomeno della violenza ostetrica va da assente nel parto extraospedaliero a rara e presente nel parto intraospedaliero.

La nascita chiede intimità e condivisione affettiva.

Verena Schmid

Riferimenti:

Postman N. (2005): La scomparsa dell’infanzia. Ecologia delle età della vita. Armando ed. Roma

Schmid V. (2007): Salute e nascita, la salutogenesi in gravidanza, Apogeo ed. Milano

Birth place study 2011: Perinatal and maternal outcomes by planned place of birth for healthy women with low risk pregnancies: the Birthplace in England national prospective cohort study, BMJ 2011; 343:d7400

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *